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Spiral Stairs live @ Freakout Club, Bologna 2017/09/26


È il 2017 e qui stasera c’è gente che si fa ancora i selfie insieme a Scott Kannberg. Con una macchinetta digitale, non con il telefono. È il 2017 e qui c’è gente arrivata con addosso una maglietta dei Pavement, ovviamente comprata a qualche data in Germania o in Gran Bretagna, e ovviamente prima che i Pavement si sciogliessero. Li guardo durante il cambio palco, questi miei coetanei del secolo scorso che domattina dovranno timbrare il cartellino come me. Avranno preso ansiosi il biglietto in prevendita come me, e poi si saranno stupiti che qui stasera ci sono tipo sessanta persone al massimo. Avranno detto a casa, ciao vado a sentire Spiral Stairs, ti ricordi, era quello dei Pavement, e mogli e figli forse li avranno abbracciati con tenerezza. Bravo, vai, non fare tardi. È il 2017 e la banda di ragazzini olandesi in apertura ha spaccato abbastanza, suonando con encomiabile tiro pezzi che mi ricordavano un po’ gli Urusei Yatsura un po’ i Get Up Kids, e concludendo con un inno intitolato Indie Academy. Dico, nel 2017. Comunque si chiamano Canshaker: io e i miei coetanei con la maglietta dei Pavement domattina li ascolteremo soddisfatti con gli auricolari in ufficio.
È il 2017 e a un metro da me c’è Spiral Stairs con gli occhiali da vista, pochi capelli corti e bianchi. Sposta il case di un ampli con sopra un adesivo dei vecchi FUCK. Cazzo, penso, sono proprio a Bologna, non potrei essere da nessun’altra parte. E anche se nello stanzone del Freakout non si respira come sempre, come se chiunque intorno a me fosse in tour da mesi, e da mesi non avesse mai visto una doccia o una lavanderia a gettoni, mi viene proprio da pensare che tutto sommato voglio bene a questa città che non mi appartiene e che non ha bisogno di me. È il 2017, ed è l'indie rock. Siamo arrivati qui.
Il concerto poi è un affare a tratti ingombrante, a tratti un po' troppo cattivo e a tratti quasi affettuoso, ma di un affetto scanzonato, mai davvero sentimentale. Kannberg sul palco sembra lasciarsi andare del tutto solo in poche occasioni, e mi pare che la scaletta ingrani un po' a fatica, dopo tre o quattro canzoni, su Unconditional, una delle più belle e distese dell'ultimo album Doris And The Daggers. Un disco equilibrato, che tiene assieme chitarre piene con arrangiamenti di fiati e tastiere, e lo fa con una sua grazia e serenità, mentre qui stasera la band (che vede al basso e alla seconda voce Jon Auer dei Posies) sembra decisa a scrollarsi di dosso ogni traccia di delicatezza. Il suono insegue un impasto caotico che non sempre riesce a governare. Ogni tanto Kannberg si volta di scatto per ordinare al batterista di non rallentare, oppure guarda storto l'altro chitarrista per un assolo uscito scomposto, e non sembra scherzare. Poi magari arriva una splendida Caught In The Rain dei suoi Preston School Of Industry, oppure arriva addirittura una sua cover dei Pavement, tipo Date With Ikea o Kennel District, e all'improvviso tutti, sopra e sotto al palco, sono felici come bambini. Mi torna in mente un post di Matthew Perpetua di qualche mese fa, in cui parlava di Kannberg osservando "his particular type of artsy nerdiness and his oddly evasive approach to expressing himself". Come un ragazzo che non riesce mai a pronunciare fino in fondo i propri desideri e sentisse il bisogno di seppellirli dentro di sé. Una sgangherata Falling Away sul finale (lo so: quasi era meglio non sentirla così) e questo blog torna giovane, ai brindisi sulle onde radio sparate dallo scantinato di Via Masi, e poi una tumultuosa Two States come ultimo bis, con Kannberg che scende in mezzo a quelli rimasti dentro il Freakout per saltare ancora fiero, passare il microfono e urlare. È il 2017, era l'indie rock, porteremo con noi anche questo.



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